15/06/11

fienagione

Ripropongo un post di qualche tempo fa:





Nel mio paese le attività che potevano garantire un piatto di polenta o di minestra erano scarse; a 1000 metri sul livello del mare non sono grandi le possibilità offerte dalla terra.
In quasi tutte le famiglie tenevano nella stalla una o due mucche e le mucche garantivano il companatico a prezzo di grandi fatiche; "strùssie" erano chiamate in dialetto.
I l latte era il prodotto della mungitura e dal latte si ricavava principalmente il formaggio che era una riserva di proteine ed inoltre riposto sugli scaffali della cantina era una riserva alimentare che si accompagnava con tutto, dalla polenta alle patate lesse, dal radicchio al pane, anche se in verità il pane, fino agli anni 50, compariva raramente sulle tavole, perché il grano non si poteva produrre in loco, ma bisognava acquistarlo e non sempre, anzi raramente, c'erano i soldi.
Poi oltre, al formaggio, dal latte si ricavava il burro ed il burro era, in pratica, l'unico grasso usato in cucina, oltre un po' di lardo quando macellavano il maiale; l'olio era praticamente sconosciuto.
Le vacche venivano alimentate col fieno e la fienagione era un'attività che occupava tutta la bella stagione.
Si incominciava a primavera a curare i prati, in pratica bisognava asportare le pietre sollevate dalle talpe e che si erano accumulate durante l'inverno, allora si rastrellava il prato ed il materiale raccolto, si versava in qualche anfratto o nei torrenti, (non c'era pericolo di inquinamenti era tutto materiale ecologico).
La fase successiva, consisteva nel concimare i prati e per questa operazione si usava il letame delle mucche lasciato fermentare in cumuli, poi si caricava nella gerla e si portava nei prati, anche distanti ore di strada.
Queste operazioni erano a carico della donne, poiché gli uomini e i ragazzi dopo gli otto anni, partivano col carretto a primavera per andare a centinaia di chilometri di distanza ad offrire la loro opera di seggiolai ambulanti.
Quando poi arrivava il mese di giugno, incominciava la fienagione.
La prima operazione da fare era il taglio dell’erba, questo lavoro di solito era eseguito dagli anziani,
più raramente da qualche emigrante che rientrava qualche giorno per questo lavoro.
Il taglio dell’erba, iniziava che era ancora notte, perché l’erba umida di rugiada era più facile da tagliare, e il falciatore proseguiva scendendo il declivio con movimenti semirotatori tagliando una trentina di centimetri ogni falciata;





ogni due o tre minuti doveva rifare il filo alla falce usando allo scopo una pietra di arenaria che portava nel portacote, che era un tronchetto scavato, (e lavorato artisticamente durante i mesi invernali), terminava aguzzo e in dialetto era chiamato ”coder” perché veniva portato dietro, agganciato alla cintura.
Dopo il sorgere del sole arrivavano le donne le quali ( precedentemente erano andate ad accudire e mungere le mucche) assieme ai ragazzi dovevano spargere l’erba in maniera uniforme perché seccasse al sole, questa operazione si faceva con le mani, oppure usando una forca con due punte.
Finite queste operazione era ora di pranzo e se i prati erano vicino alle abitazioni, si ritornava a casa, altrimenti arrivava qualche donna con la polenta calda e il companatico portati in una gerla.
Il pasto si consumava scrutando le nubi che nelle ore più calde del giorno si ammassavano e l’ occhio esperto del montanaro riconosceva anche il più piccolo batuffolo che in poco tempo si sarebbe trasformato in temporale, allora era necessario ammucchiare velocemente il fieno, perché non si bagnasse; se, invece, era una bella giornata estiva, bisognava girare il fieno, perché si seccasse anche dall’altra parte, questa operazione si faceva col rastrello, nuova pausa fino al tramonto e questo tempo era dedicato ai giochi se bambini e alle chiacchiere fra adulti.
A sera si facevano dei cumuli chiamati “mar”, in questo modo l’umidità della notte non avrebbe fatto marcire il fieno parzialmente secco.
La mattina successiva taglio dell’erba in un altro prato e tutte le operazioni del giorno precedente sia con l’erba appena tagliata, sia con quella quasi secca.
Alla sera di nuovo i cumuli, mentre il fieno ormai secco si portava nel fienile, a questo scopo si stendevano sul terreno due corde lunghe circa 3 metri a una quarantina di centimetri di distanza e sopra queste corde si ponevano delle bracciate di fieno, indi quando il mucchio era consistente, dai 30 ai 50 kg. secondo la distanza da percorrere si stringevano le corde, veniva allargato il fieno in modo da creare una fossa dove introdurre la testa, attorno a questo buco, attorcigliando del fieno, si creava un supporto per distribuire il peso anche sulle spalle, poi chi era destinato a portare a casa il fieno, si chinava, introduceva la testa nel foro, una o due persone dalla parte opposta alzavano “ il fascio” ( così veniva chiamato) e via verso la stalla, a volte la percorrenza era anche di un paio d’ore, in quei casi si sapeva dove lungo il tragitto si potevano trovare dei muretti alla giusta altezza per posare il carico e dopo il riposo riprenderlo senza l’aiuto di nessuno.
La sera , dopo la cena, un rumore caratteristico veniva dai falciatori che dovevano rifare il filo alla falce e per questa operazione usavano un attrezzo di ferro lungo una quarantina di centimetri che veniva conficcato nel terreno, sulla sommità di questo attrezzo un supporto consentiva di appoggiare il filo della falce e col martello apposito si batteva sul filo per raddrizzare tutte le irregolarità che si erano create urtando sassi, rami o paletti di confine nascosti dall’erba alta, il tutto accompagnato dal suono ritmico del martello che batteva.
La fienagione era molto faticosa, ma indispensabile per garantire l’approvvigionamento invernale di fieno e per questa ragione il primo taglio di fieno veniva raccolto anche sulle montagne distanti da casa, il taglio cominciava nei primi giorni di giugno nei prati attorno alle case, per poi allontanarsi fino ad arrivare ai pascoli di montagna, in seguito l’erba vicino alle case era ricresciuta e si provvedeva ad un nuovo taglio ed a volte anche un terzo taglio, mo solo nelle vicinanze delle stalle.





Questa era la dura vita dei montanari, ora , dopo il boom degli anni sessanta e la disastrosa alluvione del 1966, i borghi sperduti fra i monti, sono stati abbandonati, il terreno incolto è diventato bosco; il bosco stesso non più curato è diventato boscaglia, nei centri abitati, rimane qualche persona anziana che, nel limite delle sue forze, cerca ancora di preservare quello che ha ricevuto dalle molte generazioni che si sono susseguite prima di lei, ma la lotta è impari.